Attrarre i nomadi digitali: la nuova sfida dell’Italia

Secondo un nuovo rapporto del Migration Policy Institute, più di 25 paesi hanno lanciato visti per i cosiddetti nomadi digitali, freelance o manager che lavorano da remoto senza vincoli di presenza in sede e di orario. La tendenza, innescata dalla pandemia, è iniziata con le piccole nazioni europee e caraibiche dipendenti dal turismo. Ora, economie più grandi come Emirati Arabi Uniti, Brasile e Italia si stanno allineando, lanciando proprie iniziative.
Per questi paesi, i visti nomadi digitali sono un modo per attrarre nuove idee e talenti sulle loro coste, oltre a sfruttare la crescita del lavoro a distanza per iniettare capitali stranieri nelle economie locali.
Nel mondo si stima siano circa 35 milioni, che creano un giro d’affari da 700 miliardi di dollari.
L’apertura dell’Italia ai lavoratori da remoto provenienti da tutto il mondo è stata ufficializzata grazie a una norma del decreto Sostegni Ter che consente loro di ottenere un visto di lavoro di un anno prorogabile di un ulteriore anno con una procedura facilitata. Una procedura estesa anche ai familiari, servono però l’assicurazione sanitaria e un reddito minimo.
Nel nostro paese, città come Venezia e Firenze hanno già sviluppato programmi per aiutare i nomadi digitali a rendere più semplice la loro permanenza, grazie a piattaforme online che offrono servizi e facilitazioni per gli stranieri che decidono di trascorrere qualche settimana o mese in Italia, lavorando e godendosi le attrazioni che il Belpaese è in grado di offrire.
I nomadi digitali scelgono l’Italia
L’Associazione Italiana Nomadi Digitali, che punta a promuovere il nomadismo digitale e incentivare la cultura del lavoro da remoto nel nostro Paese, ha recentemente pubblicato il secondo Rapporto sul Nomadismo Digitale in Italia. I risultati sono basati sui dati raccolti da un sondaggio internazionale realizzato nel mese di marzo 2022 a cui hanno risposto oltre 2200 remote worker e nomadi digitali provenienti da Paesi diversi.
Secondo la ricerca, il 46% dei remote worker intervistati ha già fatto esperienze di nomadismo digitale, mentre il restante 54% dichiara di volerlo fare nel prossimo futuro. Interessante il dato per cui i professionisti che hanno già sperimentato esperienze di nomadismo digitale sono principalmente dipendenti (52%) o collaboratori di aziende e presentano in media un alto livello di istruzione: il 42% ha una laurea e il 31% un master o un dottorato. I settori economici da cui provengono i nomadi digitali sono quello della comunicazione dell’information technology.
L’Italia, secondo quanto si legge nel Rapporto, risulta una destinazione attraente agli occhi dei remote worker e dei nomadi digitali: il 43% degli intervistati sceglierebbe il Sud Italia e le Isole come destinazione privilegiata, il 14% una destinazione del Centro Italia e solo il 10% il Nord Italia. Il 93% degli intervistati ha risposto di essere interessato a vivere la propria esperienza da nomade digitale, soggiornando per periodi di tempo variabili in piccoli comuni e borghi dei territori marginali e aree interne del nostro Paese, considerati luoghi dove la qualità della vita è migliore rispetto ai grandi centri urbani. Il 42% è interessato a soggiornare in Italia per periodi che variano da 1 a 3 mesi, il 25% da 3 a 6 mesi, mentre il 20% sarebbe disposto a fermarsi anche per più tempo.
“I risultati emersi – si legge nel rapporto – sono estremamente interessanti e dimostrano come l’Italia abbia un potenziale attrattivo enorme nei confronti di remote worker e nomadi digitali”.
Una buona notizia, dunque, per i piccoli comuni, soprattutto quelli del centro e sud Italia, che possono sviluppare un nuovo filone economico incentivando forme di nomadismo digitale e offrendo ai professionisti 4.0 la possibilità di coniugare lavoro e scoperta di nuovi luoghi e modi di vivere.
«Si tratta di un’interessante opportunità per le economie locali – commenta Egidio Sangue, Direttore di FondItalia, secondo cui «il potere di attrazione dei piccoli centri italiani crescerà nei prossimi anni, a patto che si investa sulle infrastrutture tecnologiche e sull’implementazione dei servizi a disposizione di questi nuovi lavoratori. E’ necessaria una vera e propria modernizzazione che dovrà vedere le aziende protagoniste. E in questo senso la formazione dei dipendenti giocherà un ruolo centrale».