I riflessi dell’innovazione tecnologica sul mercato del lavoro italiano

A dispetto dei timori di “disoccupazione tecnologica”, i dati sulla forza lavoro dell’Unione Europea resi disponibili da Eurostat registrano, nel 2022, un livello di occupazione pari al 74,6% nella fascia di popolazione dai 20 ai 64 anni. Si tratta della percentuale più alta dall’inizio della raccolta delle serie storiche nel 2009. Si evidenziano tuttavia grandi differenze tra i singoli Paesi. Le percentuali più alte si registrano nei Paesi Bassi (83%), in Svezia ed Estonia (82%), mentre l’Italia riporta il dato più basso (65%), accompagnata dai Paesi dell’Europa mediterranea e dalla Romania.

Eurostat evidenzia un significativo divario di genere. Mentre il tasso di occupazione maschile nell’UE si attesta all’80%, quello femminile è del 69,3%. Anche in questo caso, l’Italia registra il risultato peggiore, con una percentuale del 55%. 

Interessante è il dato sull’età degli occupati. La fascia 55-64 anni registra un sensibile incremento della percentuali rispetto al 2009, mentre quella tra 15 e 24 anni riporta una riduzione.

I dati Eurostat evidenziano una stretta correlazione tra livello di istruzione e possibilità di occupazione. Nel 2022 il tasso di occupazione per le persone di età compresa tra 20 e 64 anni che avevano raggiunto un livello di istruzione terziario è stato dell’86%, molto più alto del tasso di coloro che avevano completato solo un livello di istruzione basso (istruzione secondaria di primo grado) che era del 57,2%, e al di sopra di coloro che avevano completato il ciclo di istruzione secondaria di secondo grado, che si attestano ad un livello di occupazione del 74,2%.

Anche in questo caso emergono tuttavia rilevanti differenze tra i singoli Stati membri. La percentuale di occupati con istruzione terziaria è più alta in Irlanda (58,9%), Lussemburgo (57,8%) e Belgio (53,2%), mentre è più bassa in Repubblica Ceca (27,6%), Italia (25,1%) e Romania (25%).

Il dato sull’occupazione in rapporto al livello di istruzione testimonia una continua crescita dei lavoratori non manuali altamente qualificati che si riscontra dall’inizio del nuovo millennio, come riflesso delle innovazioni tecnologiche in corso.

Di fronte a questo trend generale, occorre però considerare che vi sono tendenze nazionali estremamente eterogenee. Come detto, l’Italia registra i dati peggiori a livello europeo, in termini di occupazione complessiva, di differenze di genere e di occupazione tra i laureati.
La ragione è duplice.

Da un lato è il prodotto di una struttura economica caratterizzata dalla prevalenza di un settore manifatturiero concentrate in piccole imprese, con meno di 50 addetti. Si tratta di un settore dove, notoriamente, risultano minori gli investimenti in ICT e Ricerca e sviluppo, ma dove si registrano anche minori innovazioni di prodotto e organizzative-gestionali, minori investimenti in capitale umano e, conseguentemente, una scarsa domanda di laureati.
D’altra parte, è anche il riflesso del diverso grado di industrializzazione e delle divergenze tra Nord e Sud del Paese, che affossano il complessivo dato nazionale.
Un lavoro pubblicato dalla Banca d’Italia, dal titolo Cambiamenti della struttura occupazionale e della qualità delle opportunità lavorative in Italia: un’analisi nazionale e regionale (2021), che analizza la qualità delle opportunità lavorative create e distrutte in Italia e nelle sue regioni nel periodo 2011-17, evidenzia il peso del dualismo economico italiano sulle opportunità di lavoro. Nelle regioni del Centro-Nord la crescita occupazionale ha riguardato anche le posizioni lavorative più qualificate, mentre nel Mezzogiorno ha interessato esclusivamente quelle meno qualificate.

Si tratta di tendenze legate alla diversa struttura produttiva del Paese. Nell’Italia centro-settentrionale prevalgono i servizi ad alto valore aggiunto, che risultano invece carenti al Sud. 

Queste dinamiche aumentano il rischio di disoccupazione tecnologica soprattutto nel Mezzogiorno, come testimoniato da un studio di Mariasole Bannò, Emilia Filippi e Sandro Trento, dal titolo i Rischi di automazione delle occupazioni con riferimento all’Italia (2021). 

Lo studio segue due approcci. Uno basato sull’analisi della sostituzione dei lavoratori che occupano determinate posizioni lavorative. L’altro focalizzato sull’automazione di alcune mansioni che quei lavoratori svolgono all’interno del processo produttivo.
L’indagine conferma come ad essere maggiormente esposte all’impatto dell’innovazione tecnologica siano le occupazioni con minore qualifica, in particolare nel settore dei servizi di vendita, nella produzione, nelle attività amministrative e burocratiche. Viceversa, le occupazioni meno esposte riguardano l’ambito manageriale mentre, dal punto di cista settoriale, sono legate all’istruzione, alla ricerca e alla salute.

L’approccio dello studio basato sulle mansioni degli occupati evidenzia come l’introduzione di nuove tecnologie, quali ad esempio l’intelligenza artificiale, non porti ad una sostituzione diretta del lavoratore, ma ad una ricomposizione e redistribuzione delle mansioni tra gli occupati. Il risultato finale consisterebbe in una riduzione dell’input di lavoro, ma assai meno violenta di quanto si registra con l’analisi basata sugli occupati.

Seguendo l’approccio basato sull’occupazione, il rischio di disoccupazione dovuto all’adozione delle nuove tecnologie investirebbe oltre 7 milioni di occupati, ossia quasi un terzo del totale. Seguendo invece l’approccio basato sul tipo di mansione, tale rischio investirebbe 3,8 milioni, pari al 18% del totale.

Il rischio di “disoccupazione tecnologica” graverebbe maggiormente sul Mezzogiorno d’Italia, dove l’occupazione è concentrata in un terziario scarsamente qualificato.

Ne consegue la necessità di investimenti sul potenziamento del capitale culturale, soprattutto dell’Italia meridionale, per accrescere la competitività delle imprese, le possibilità di occupazione dei lavoratori ed elevare il sistema economico nel suo complesso. Come dimostrano gli studi citati, il rischio di disoccupazione tecnologica è inversamente proporzionale al livello di qualifica dell’occupazione, che a sua volta è il risultato del titolo di istruzione in possesso del lavoratore e dei percorsi di formazione continua seguiti.