Innovazione, formazione e sviluppo economico. Il Mezzogiorno di fronte alla rivoluzione digitale

Gli studi e le indagini economiche concordano sulla correlazione esistente tra capitale culturale, capacità di innovazione e sviluppo economico. Una correlazione divenuta centrale a seguito della rivoluzione informatica avviata negli anni Settanta del Novecento e che in Italia risulta più labile nelle regioni del Centro-Sud e delle Isole, caratterizzate da un tessuto economico imperniato su piccole e microimprese.
La sfida è quella di promuovere la crescita della capacità di innovazione anche in queste aree del Paese, coinvolgendo sia i protagonisti del mondo del lavoro, sia i soggetti coinvolti in tutta la filiera della formazione. È stato questo il tema al centro di un convegno organizzato il 19 ottobre dell’Osservatorio sulle trasformazioni del lavoro e della formazione continua promosso da FondItalia in collaborazione con l’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea del CNR, presso la sede di Roma dello stesso ISEM-CNR, ospitata dall’Istituto Nazionale di Studi Romani.
I lavori, moderati da Roberto Rossi dell’Università di Salerno, si sono aperti con gli interventi del Presidente dell’Istituto Nazionale di Studi Romani Gaetano Platania, del direttore di ISEM-CNR Gaetano Sabatini, e del presidente di FondItalia, Francesco Franco, i quali hanno ricordato come il merito principale dall’Osservatorio sulle trasformazioni del mondo del lavoro e della formazione continua consista nel mettere in collegamento il mondo della produzione con il mondo della ricerca. Si tratta di due ambiti che troppo spesso procedono parallelamente, senza incontrarsi. L’Università rimane molto a margine rispetto alle attività di orientamento e formazione professionale, per alcune fragilità istituzionali ma anche per una consapevolezza, riguardo all’importanza di questa dimensione, acquisita solo di recente. Il lavoro svolto negli ultimi due anni dall’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea del CNR, con il sostegno di FondItalia, ha invece consentito di stabilire un primo collegamento tra queste due dimensioni, con l’auspicio che possa consolidarsi in futuro, potendo contare sul contributo di altri soggetti di particolare rilevanza accademica ma anche con una solida esperienza nell’ambito della formazione professionale. Tra questi il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Federico II di Napoli, che figura tra gli altri enti che hanno collaborato all’organizzazione del convegno insieme con la Scuola Superiore per Mediatori Linguistici Città di Cuneo.
Il direttore di FondItalia, Egidio Sangue, e il segretario confederale dell’UGL, Michela Toussan, hanno sottolineato come l’attività di ricerca sulle trasformazioni del lavoro svolta dal mondo universitario sia fondamentale sia per disegnare gli scenari su cui i fondi interprofessionali sono chiamati ad intervenire, sia per arricchire di senso l’attività di formazione. Quest’ultima deve avere come stella polare lo sviluppo delle persone e della loro capacità di comprendere e dominare la trasformazione tecnologica, evitando di subirla.
La prima sessione di lavoro, intitolata “Innovazione, formazione e sviluppo economico”, è stata dedicata al disallineamento tra domanda e offerta di lavoro, che ha la sua origine nel mancato coordinamento tra il sistema della formazione e il mondo produttivo. Ruggero Parrotto, presidente dell’associazione iKairos e curatore del rapporto 2022 del CNEL sul mismatch nel mercato del lavoro, si è soffermato sulla centralità dell’orientamento. Si tratta di un’attività che dovrebbe iniziare già nelle scuole, sin dall’infanzia, per individuare e far emergere le capacità vocazionali dei bambini, rendendone consapevoli innanzitutto gli insegnanti. Queste vocazioni dovrebbero continuare ad essere monitorate nel corso del tempo, poiché soggette a mutamento. A livello universitario, l’attività di orientamento dovrebbe essere svolta solo nei primi due anni, per poi lasciare il passo al placement. Purtroppo poche Università svolgono attività di orientamento. Assume dunque centralità la figura del mentore, che possa ascoltare gli studenti e aiutarli a riconoscere le loro inclinazioni.
Ma l’attività di orientamento non dovrebbe limitarsi al mondo della formazione. Secondo quanto emerge dal citato rapporto del CNEL, i datori di lavoro non conoscono le competenze e le aspirazioni dei propri dipendenti, con la conseguenza che gran parte dei lavoratori è mal collocata all’interno delle aziende. Sarebbe dunque importante svolgere un’attività di orientamento anche nelle imprese.
Il rapporto del Cnel suggerisce di stipulare accordi tra Università, imprese e Regioni sia per risolvere il problema del disallineamento tra domanda e offerta di lavoro, sia per elevare la qualità dell’attività di formazione professionale continua.
Infine, il rapporto del CNEL auspica la costituzione di una grande banca dati nazionale da cui ricavare gli elementi per poter affrontare il mismatch del mercato del lavoro, indicando dove si trovano le imprese che cercano lavoratori, in quali settori, per quali occupazioni e con quali stipendi.
Massimiliano Franceschetti, ricercatore dell’INAPP, si è soffermato sul ruolo della formazione tecnico-professionale. Si tratta di una filiera che ogni anni registra qualifiche per circa 70 mila giovani, con tassi di occupazione, a due anni dal conseguimento del titolo, di circa il 70%. L’INAPP ha cominciato a collegare la banca dati proveniente da Unioncamere, che rappresenta dunque il versante delle imprese, con i dati raccolti in merito alle qualifiche conseguite nell’ambito dell’istruzione e della formazione professionale. Ne emerge come le imprese spesso richiedano competenze che non escono dal settore della formazione. Vi sono settori particolarmente bisognosi, come la meccanica, l’edilizia, la logistica e i trasporti. Altri settori registrano invece un numero di giovani formati superiore alla capacità di assorbimento del mercato del lavoro. Accade nel settore della ristorazione, del tessile, del benessere e della cartotecnica.
Un ruolo importante per colmare questo disallineamento tra domanda e offerta di lavoro, aumentando il tasso di occupabilità dei lavoratori, lo recitano le competenze trasversali, o soft-skills. In questo ambito, l’INAPP ha creato alcuni strumenti atti a misurare le competenze trasversali dei giovani impegnati nell’istruzione e nella formazione professionale.
Nicola Patrizi, presidente di Federterziario, ha richiamato l’attenzione sul calo demografico che attanaglia l’Italia, che in futuro si tradurrà in un calo di competenze, conseguenza del minor numero di diplomati tecnici e di laureati. Purtroppo manca una politica della formazione capace di affrontare questa realtà. Di fronte agli ingenti finanziamenti a disposizione del PNRR, il rischio è che l’offerta formativa continui ad essere prodotta sulla base di cataloghi già esistenti, piuttosto che plasmata ex novo a partire dai dati disponibili sul disallineamento tra domanda e offerta di lavoro. Lo studio La politica di coesione e il Mezzogiorno. Vent’anni di mancata convergenza, recentemente pubblicato dall’ISTAT, ha dimostrato come l’utilizzo dei fondi di coesione dall’inizio degli anni Duemila ad oggi abbia prodotto un effetto regressivo nei settori di investimento, per l’incapacità di effettuare un’adeguata programmazione da parte degli enti locali. È dunque necessario favorire il dialogo tra i settori dell’istruzione, dell’Università e il mondo del lavoro, per migliorare l’attività di orientamento dei lavoratori e la capacità di programmazione dell’intero sistema.
Il direttore di FondItalia, Egidio Sangue, si è soffermato sulla necessità di elaborare delle visioni verso cui orientare gli interventi di sviluppo economico e di formazione. A questa finalità sono state orientate le ricerche condotte da ISEM-CNR. Ciò che è accaduto al settore dell’edilizia negli ultimi anni dimostra l’importanza di agire avendo come riferimento una visione del sistema. Si è infatti passati dalla crisi del 2008 ad una improvvisa e eccessiva immissione di capitali tramite il superbonus, che ha generato una serie di problematiche tali da mettere in pericolo l’intero settore. Ma anche il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro è causato dalla mancanza di una visione. Come già ricordato, tra le competenze maggiormente richieste ai lavoratori figurano le soft-skills, che garantiscono quella flessibilità necessaria per rispondere ai continui mutamenti che caratterizzano oggi i contesti professionali. Purtroppo il Fondo Nuove Competenze, ad ulteriore prova di una mancanza di visione, ha tralasciato questo ambito, concentrandosi sulla transizione tecnologica e sulla transizione ambientale.
I fondi interprofessionali possono aiutare il dialogo tra il mondo della formazione e il mondo del lavoro, soprattutto fornendo dati che non sono meramente qualitativi ma, in virtù del rapporto diretto che i fondi hanno con le imprese, possono arricchirsi di una dimensione qualitativa importante per comprendere come il sistema reagisca ai mutamenti. Infine, in considerazione dell’attenzione che il Convegno pone allo sviluppo del Mezzogiorno, Sangue ha invitato ad elaborare una visione che tenga conto dell’opportunità rappresentata dal recupero e dalla valorizzazione dei borghi antichi quale volano per la ripresa economica soprattutto del Sud Italia.
La seconda sessione del convegno è stata dedicata a “Il Mezzogiorno di fronte alla rivoluzione digitale”. L’intervento di Marco Zaganella, dell’Università degli studi dell’Aquila e ricercatore dell’ISEM-CNR, si è focalizzato sul rapporto tra Mezzogiorno e processi di modernizzazione, un tema che affonda le sue radici lontano nel tempo, sin dalla seconda rivoluzione industriale, ma che si è acuito in particolare a partire dagli anni Settanta/Ottanta del Novecento, con la cosiddetta “terza rivoluzione industriale”. Quest’ultima è una fase storica rilevante alla luce del rapporto tra trasformazioni del lavoro e dualismo economico italiano, perché in questa fase si registra il capovolgimento tra i fattori che avevano favorito lo sviluppo della società industriale dalla seconda metà dell’Ottocento e i fattori trainanti lo sviluppo della società che invece si annuncia con la rivoluzione informatica e la globalizzazione. La nascita e lo sviluppo di una società industriale si era basata su due pilastri: la disponibilità di materie prime e la dotazione infrastrutturale di un territorio, mentre il capitale culturale assumeva un’importanza ridotta. Nella fase dell’industrializzazione, fino alla vigilia della terza rivoluzione industriale, le istituzioni si sono impegnate nell’aumentare la dotazione infrastrutturale di un territorio. Questo schema di investimenti in infrastrutture, unito alla realizzazione di grandi stabilimenti industriali, ha ispirato l’intervento straordinario nel Mezzogiorno, ma è entrato in crisi negli anni Settanta del Novecento. Si apriva infatti l’era dell’informatica e della globalizzazione, che ponendo al centro delle dinamiche economiche la capacità di innovazione, invertiva il rapporto di forza tra dotazione infrastrutturale e capitale culturale. Si affermava l’economia della conoscenza, dove la competitività non dipende più soltanto dai costi e dall’efficienza delle funzioni materiali di produzione, ma dai costi e dall’efficienza delle funzioni immateriali. Quindi dal capitale culturale e dal capitale umano, la cui centralità era già stata intuita e affermata da Gary Becker nel volume Human Capital del 1964. Inoltre, l’ampliamento della concorrenza internazionale con l’emergere dei Paesi di nuova industrializzazione in Asia e la rivoluzione informatica determinavano la centralità dei processi di innovazione. L’intervento straordinario impostato negli anni Cinquanta non consentiva di rispondere alle nuove sfide dell’economia. Fu trascurata sia la formazione del capitale umano e culturale, sia lo sviluppo di piccole e medie imprese, e, di conseguenza, la formazione tanto dei lavoratori, quanto dei piccoli e medi imprenditori. Fu così trascurata la capacità di attivare processi di sviluppo endogeni nel Mezzogiorno. A questa inadeguatezza dell’intervento straordinario si accompagnavano alcuni problemi “strutturali” di determinate aree del Mezzogiorno, tuttora presenti, che affondano le loro radici nella tipologia di civiltà agraria che le aveva contraddistinte per secoli. Il collegamento tra civiltà agraria e processi di industrializzazione è stato colto da Arnaldo Bagnasco, che nel 1977 pubblicò un volume in cui coniava l’espressione “Terza Italia”, per indicare un insieme di territori che proprio a partire dagli anni Settanta avevano intrapreso processi di sviluppo economico convergente, trainati dalla piccola impresa. I territori della “Terza Italia” erano stati caratterizzati, in agricoltura, dal modello della mezzadria. Altri territori non reagivano allo stesso modo. Erano territori che storicamente avevano patito il peso del latifondo e dove si erano plasmati sistemi economico-sociali statici – ad alta intensità di lavoro e bassa produttività – immuni ai processi di modernizzazione. Il problema dunque di molte aree del Mezzogiorno di fronte ai processi di innovazione permanente che caratterizzano oggi il mondo del lavoro è innanzitutto di carattere culturale. È dunque necessaria una formazione iniziale e continua di qualità, che può essere favorita dal collegamento tra fondi interprofessionali e Università, ma che non può tralasciare interventi rivolti al capitale culturale dei piccoli e medi imprenditori. È da questi ultimi che dipende la capacità di innovazione delle imprese e l’impegno delle stesse nella formazione dei lavoratori. Purtroppo si tratta di una categoria esclusa dagli interventi che possono essere finanziati dai fondi interprofessionali
Alessandro Albanese Ginammi, dell’Università per Stranieri di Perugia e ricercatore dell’ISEM-CNR, ha analizzato il mismatch del mercato del lavoro in Sardegna. il disallineamento tra formazione, domanda e offerta di lavoro è uno dei principali problemi con cui si confronta il sistema produttivo italiano. A soffrirne sono soprattutto le regioni del Sud, come Basilicata, Molise, Puglia, Campania, Sicilia, Calabria e Sardegna. I dati ricavati da indagini del CNEL, dell’INAPP e messi a disposizione anche da FondItalia, evidenziano le difficoltà di tutta la filiera della formazione a soddisfare il fabbisogno di competenze delle imprese. A livello di formazione professionale prevalgono qualifiche nell’ambito del settore della ristorazione e del benessere, mentre le imprese faticano a individuare operai specializzati, conduttori di impianti e macchine, impiegati e addetti nell’ambito delle professioni commerciali e dei servizi. Ne consegue la necessità di attivare piattaforme capaci di stimolare il dialogo tra i settori dell’istruzione, dell’Università, della formazione professionale, coinvolgendo anche i sindacati, le imprese e le istituzioni. Le informazioni in possesso dei fondi interprofessionali sull’attività di formazione finanziata potrebbero rappresentare il minimo comune denominatore attorno a cui riunire questi soggetti. Si tratta di una preziosa base dati che potrebbe essere condivisa con le Università, per favorire attività di ricerca e l’elaborazione di proposte finalizzate ad adeguare i sistemi di formazione alle nuove necessità del mondo del lavoro. Ma non solo. Simili dati, potrebbero anche guidare l’attività di orientamento da svolgere nelle scuole, da parte di alcuni, selezionati, enti di formazione che già svolgono una funzione di raccordo tra istituti superiori, Università e formazione professionale. La Sardegna, dove il mismatch tra domanda e offerta di lavoro è oltre la media nazionale, potrebbe rappresentare un luogo interessante dove sperimentare una simile piattaforma di collaborazione.
Ricollegandosi all’intervento di Marco Zaganella, Renato Amoroso, dell’Università Federico II di Napoli, ha ricordato il dibattito che negli anni Cinquanta ha interessato lo sviluppo straordinario nel Mezzogiorno, quando si confrontarono i fautori dello sviluppo equilibrato e i sostenitori dello sviluppo “squilibrato”. I primi facevano riferimento alla capacità di accumulazione di capitale come prerequisito dello sviluppo economico, mentre i secondi, ispirati dagli studi di Albert Hirschman, sottolineavano l’importanza di potenziare le capacità endogene, vale a dire le capacità imprenditoriali e umane necessarie per attivare processi di sviluppo. Ebbe la meglio il primo schieramento, innescando nel Mezzogiorno un meccanismo per cui si tende a rispondere ai problemi esogeni con soluzioni esogene. Il Mezzogiorno è diventato così area di produzione di beni strumentali rispetto a produzioni complete che si realizzano al di fuori delle regioni meridionali, oltre a rappresentare un’area di esportazione di manodopera. Il cambio di prospettiva consisterebbe nel promuovere risposte endogene a problemi endogeni, in sintonia con le vocazioni produttive e di consumo del Mezzogiorno stesso. In questo senso diviene centrale la formazione del capitale umano del territorio e dunque il ruolo delle Università, anche nell’ambito della formazione professionale continua. Un impegno che risponde a tre esigenze. La prima, di elevare la qualità della formazione continua. La seconda, consistente nel certificare i percorsi formativi svolti dai lavoratori. La terza, di tradurre l’attività di ricerca svolta dalle Università in un contributo al miglioramento dell’economia e della società. L’Università Federico II di Napoli si sta impegnando in questi ambiti. Ad esempio promuovendo la nuova imprenditorialità attraverso alcuni incubatori, quali Campania start-up e Campania NewSteel. Ma vi sono anche percorsi di formazione che si rivolgono a cittadini stranieri attraverso corsi per mediatori culturali e sui diritti umani. Si tratta di un’attività che lo stesso Ateneo auspica di poter ampliare stabilendo sinergie con i fondi interprofessionali.