L’Intelligenza Artificiale e i riflessi su Lavoro, Innovazione, Produttività e Competenze

Articolo redatto da Osservatorio FondItalia

L’Intelligenza Artificiale (AI) è destinata a trasformare radicalmente il mercato del lavoro e la domanda di competenze professionali. L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha approfondito le opportunità e le problematiche legate al diffondersi dell’intelligenza artificiale sui luoghi di lavoro nella conferenza “AI in Work, Innovation, Productivity and Skills”, organizzata dal 21 al 25 febbraio con il supporto della Repubblica Federale Tedesca.

Nella cinque giorni di lavori sono stati approfonditi molteplici aspetti legati all’impatto dell’Intelligenza Artificiale, sotto il profilo produttivo, sociale, etico ed istituzionale. Per ragioni di spazio, riportiamo solo alcuni interventi più direttamente collegati all’attività dell’Osservatorio sulle trasformazioni del lavoro e della formazione continua.

Ad aprire la Conferenza è stato un dialogo con Jim Bessen (Boston University School of Law) già autore del volume Learning by Doing. The real connection between Innovation, Wages, and Wealth (2015). Bessen ha evidenziato il ruolo positivo delle innovazioni tecnologiche, che consentono di incrementare la produttività e aumentare i profitti. Tuttavia, ha sottolineato come vi siano aziende che investono in innovazione riuscendo a trarne vantaggi economici e a poter aumentare i salari, a fronte di molte altre aziende che rimangono indietro, riportando un calo dei profitti e la perdita di posti di lavoro.

Le fasi di trasformazione tecnologica rischiano di generare crescenti iniquità, ma non per colpa delle tecnologie, che di per sé sono neutre. A fare la differenza è il ruolo delle istituzioni e la loro capacità di governare le trasformazioni.
Storicamente, il dispiegarsi di innovazioni tecnologiche in ambito produttivo segue una traiettoria che nel breve periodo passa per una distruzione di posti di lavoro, a cui segue, nel medio-lungo periodo, una fase di creazione di nuove professionalità e opportunità di occupazione. È dunque fondamentale che la fase di breve periodo veda dispiegarsi una risposta delle istituzioni a tutela di coloro che rischiano di essere espulsi dal mercato del lavoro.

A tal proposito, Bessen si è soffermato sull’importanza della riqualificazione professionale e sulle competenze che, a suo modo di vedere, dovrebbero costituire l’ossatura dei programmi di formazione professionale. Non si tratta di concentrarsi solo sulle competenze legate all’Information Technology (IT), ma di curare un ampio spettro di “soft skills” e “social skills”, che saranno sempre più importanti a mano a mano che si allargheranno i processi di automazione. A tal fine, Bessen ha portato un interessante esempio, a proposito dell’evoluzione del ruolo degli operatori bancari. Negli Stati Uniti, tra il 1995 e il 2005, si è registrata una forte automazione degli sportelli bancari, che ha determinato una riduzione del numero di operatori nelle singole filiali. Tuttavia, l’automazione ha reso anche più economica l’apertura di nuove filiali per le banche, con il risultato che, complessivamente, sul territorio statunitense il numero di operatori bancari è andato ad aumentare, accompagnandosi a un cambiamento delle loro funzioni. Meno “meccaniche” (la funzione meccanica di “cassiere” ad esempio era stata automatizzata tramite gli ATM) e più rivolte al rapporto con il cliente o a funzioni di marketing, dunque maggiormente legate alle “soft skills”. È un esempio che dimostra come la tecnologia renda il contributo del fattore umano più importante e, di conseguenza, le competenze richieste più elevate.

Più pessimistica invece la visione di Daron Acemoglu (Massachusetts Institute of Technology – MIT), che ha ripreso due suoi studi pubblicati con Pascual Restrepo (Artificial Intelligence, Automation and Work del 2018 e Robots and Jobs: Evidence from US Labor Markets, del 2020).

Secondo Acemoglu, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, almeno nel breve periodo, non è quello immaginato comunemente dalla gente, consistente in macchine super intelligenti in grado di sfidare l’uomo, bensì nell’applicazione del machine learning alla raccolta e all’analisi dei dati o allo svolgimento di alcuni compiti di routine attualmente svolti dall’uomo. In questo senso, vi sarebbe una stretta connessione tra AI e automazione, con conseguenze negative in termini di polarizzazione del mercato del lavoro e crescita delle diseguaglianze. Acemoglu ha evidenziato come i processi di automazione realizzati tramite algoritmi o machine learning siano responsabili della maggior parte delle disparità economiche generate negli ultimi quarant’anni, contrariamente a quanto invece si era verificato con i processi di automazione attuati dall’inizio del Novecento all’inizio degli anni Cinquanta, che avevano accresciuto la produttività in un ampio spettro di industrie. Le questioni centrali sono rappresentate dalla concentrazione dell’innovazione in alcune grandi industrie e nella tipologia di lavoratori interessati dai processi di automazione. Le categorie più a rischio di declassamento o espulsione dal mercato del lavoro sono individuate da Acemoglu negli impiegati e negli operai con titoli di studio conseguiti da molto tempo. Tuttavia, l’economista del MIT non ripone fiducia nella possibilità di riconvertire la quasi totalità dei lavoratori sottoposti a rischio di automazione, aggiornandone la formazione con le competenze digitali o ingegneristiche che riteniamo essere necessarie in futuro. La problematica in questo caso è il rapporto tra queste competenze e la natura delle persone, che hanno predisposizioni e interessi assai diversificati. In tal senso, Acemoglu auspica lo sviluppo di programmi formativi variegati, che tengano conto della differenziazione delle inclinazioni umane, raggiungendo un punto di incontro con le nuove tecnologie, ma senza appiattirsi esclusivamente su di esse.

Alle competenze richieste in un futuro caratterizzato dalla diffusione dell’AI sui luoghi di lavoro è stato dedicato il panel “Training for AI adoption in enterprises”, a cui hanno partecipato Mary Lyons (Solas Ireland), Matthew Forshaw (Alan Turing Institute e Newcastle University), Arti Garg (Hewlett Packard Enterprise), Enrique David Espinosa (Toyota Manufacturing Canada) e Glenda Quintini (Ocse). Il tavolo di lavoro ha sottolineato l’importanza delle competenze ICT di base, di competenze digitali avanzate per poter utilizzare particolari software gestionali o algoritmi, competenze statistiche, di machine laerning, ma anche soft skills come la capacità di lavorare in team, la comunicazione, il project management e il problem solving.

Nel dibattito, Quintini ha richiamato all’attenzione l’importanza della collaborazione tra le istituzioni pubbliche e le parti sociali per incentivare i programmi formativi all’interno delle aziende e superare l’attuale gap che vede le grandi imprese investire maggiormente in formazione. Forshaw oltre a sottolineare l’importanza di competenze statistiche in funzione dell’accresciuta capacità di raccolta dati sui quali determinare le scelte aziendali, ha sottolineato anche la maggior centralità assunta dalle capacità comunicative, poiché la componente tecnica dell’azienda, che sarà sempre più specializzata, deve essere capace di “tradurre” in un linguaggio comprensibili ai business leaders l’impatto e i vantaggi delle innovazioni tecnologiche a disposizione.
Lyons ha invece richiamato l’attenzione sulla necessità di prevedere programmi di formazione che interessino tutti i livelli di lavoratori, non solo quelli più notoriamente a rischio di automazione (operai e impiegati), ma anche manager e supervisori, che dovranno gestire gruppi di lavoro integrati dall’utilizzo dell’AI.
Garg ha evidenziato l’importanza delle soft skills in funzione delle incessanti trasformazioni del processo produttivo, che presenteranno nuove problematiche al fattore umano, mentre Espinosa auspica programmi formativi che tengano conto anche dell’aspetto emotivo di lavoratori che nel corso del tempo hanno acquisito competenze professionali elevate nel proprio campo, ma che si trovano a doversi riqualificare.

Nell’arco della Conferenza è stata più volte ribadita la necessità di favorire l’innovazione tecnologica per i suoi riflessi positivi in termini di produttività, predisponendo tuttavia un solido quadro di regolamentazione istituzionale capace di ridurre i possibili effetti negativi.
Il panel “Shaping coherent policies for AI: High-level Ministerial session” è stato così dedicato al ruolo della politica. Vi hanno partecipato Mathias Cormann (Segretario generale dell’Ocse), Hubertus Heil (Ministro del Lavoro e degli Affari Sociali della Repubblica Federale Tedesca) e Kersti Kaljulaid (ex Presidente dell’Estonia). Il dibattito ha sottolineato come la diffusione dell’AI nelle aziende sia ancora a livelli bassi e caratterizzata da forti squilibri tra le grandi imprese e quelle medio-piccole. Ad esempio, nel 2020 il 34% delle grandi imprese risultava utilizzare sistemi di raccolta e analisi di big data, contro il 12% delle piccole e medie. Nei prossimi anni si prevede però una costante crescita dell’impiego dell’AI, in funzione degli ingenti investimenti previsti. La sua diffusione interesserà sempre più funzioni non automatiche e cognitive, con un impatto rilevante anche sulla categoria dei manager, differentemente dalle innovazioni precedenti che avevano interessato i livelli lavorativi più bassi.

Da un lato vi sono le enormi opportunità per chi saprà “governare” l’Intelligenza Artificiale, come dimostrano i radiologi che utilizzano l’AI per interpretare meglio i risultati degli esami, oppure gli insegnanti, che possono utilizzare i dati relativi all’analisi dell’apprendimento per differenziare l’approccio pedagogico nei confronti degli studenti. La politica è chiamata ad elaborare un quadro in grado di favorire la diffusione dell’AI e la riqualificazione dei lavoratori, ma capace anche di ridurre i rischi di disuguaglianze sociali, di esclusione dal mercato del lavoro e di violazione della privacy o di eccessivo controllo dei lavoratori.

Per sostenere l’attività dei policy makers, l’Ocse ha lanciato di un quadro di classificazione dei sistemi di intelligenza artificiale (AI Systems Classification Framework), così come l’Unione Europea, lo scorso 21 aprile, ha presentato l’Artificial Intelligence Act, finalizzato a definire un quadro di regolamentazione nell’utilizzo dell’AI.
Oltre al livello politico, è però fondamentale il coinvolgimento nei processi decisionali delle parti sociali (sindacati e associazioni datoriali), come ha evidenziato il panel “AI and social partners”, a cui hanno partecipato Maureen Hick (UNI Europa Finance), Miriam Pinto Lomeña (Confederation of Employers and Industries of Spain), Christina Colclough (Why Not Lab), David Barnes (IBM Corporation) e Sandrine Cazes (Ocse).

Il tavolo di lavoro ha sottolineato l’importanza degli accordi collettivi per consentire alle imprese di introdurre nei luoghi di lavoro le innovazioni tecnologiche, mitigando gli effetti e i costi sociali che inevitabilmente si accompagnano all’introduzione dell’innovazione. Attraverso il dialogo tra parti sociali è così possibile disegnare nuovi diritti, come il diritto alla disconnessione e a un rapporto equilibrato tra vita e lavoro, oppure assicurare un utilizzo “etico” delle nuove tecnologie. Inoltre, le parti sociali possono contribuire a incrementare le politiche di welfare sostenendo, ad esempio, i lavoratori colpiti dalla transizione tecnologica, come previsto dallo Swedish Job Security Council, o stimolando la riqualificazione dei lavoratori, inserendo negli accordi collettivi l’accesso a programmi formativi o finanziamenti specifici destinati a questa finalità.