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L’Italia tra rischi potenziali e rischi effettivi di automazione del lavoro

Il timore di una sostituzione del lavoro umano con le macchine è antico quanto la rivoluzione industriale. Gli economisti si sono sempre divisi sui rischi effettivi per i lavoratori, a partire da Ricardo e Keynes, il quale formulò la tesi della “disoccupazione tecnologica”.
Negli ultimi anni il timore è cresciuto, in conseguenza della robotizzazione e dello sviluppo di tecnologie digitali sempre più intelligenti.
Alcuni studiosi, come ad esempio Erik Brynjolfsson, Andrew McAfee, Daron Acemoglu, Pasqual Restrepo, oppure il gruppo di ricerca afferente al McKinsey Global Institute, ritengono che il progresso tecnologico sarà sempre più rapido, determinando grandi aumenti di produttività e un rischio di disoccupazione elevato. Altri, come Robert J. Gordon, Lawrence H. Summers o Philippe Aghion, sostengono che nei fatti i lavoratori fronteggeranno un rischio di sostituzione modesto.
In questo dibattito si inserisce l’indagine di Mariasole Bannò, Emilia Filippi e Sandro Trento Rischi di automazione delle occupazioni: una stima per l’Italia, pubblicato sul fascicolo di dicembre 2021 della rivista quadrimestrale “Stato e mercato”.
L’indagine contiene diversi elementi di interesse rispetto ad altre analisi sul tema. In primo luogo, utilizza sia l’occupation-based approach, che intende indagare il pericolo di automazione delle professioni, sia il task-based approach, che si focalizza invece sulle attività soggette ad automazione.
In secondo luogo, effettua una stima del potenziale di automazione, accompagnandolo però a considerazioni in merito ai rischi effettivi di sostituzione del lavoro umano, che sono collegati alle specificità della struttura economica e del contesto italiano.
Infine, gli autori dell’indagine avanzano alcune proposte per attenuare gli effetti della transizione tecnologica e organizzativa del lavoro.
Passando ai risultati dello studio, secondo l’occupation-based approach, il 33,2% dei lavoratori italiani (pari a 7,12 milioni di addetti) presenta un alto rischio di automazione. In base, invece, al task-based approach, la percentuale scende al 18,1% (3,87 milioni di addetti).
I due approcci evidenziano risultati differenti perché anche le occupazioni, che secondo l’occupation-based approach presentano una probabilità di automazione elevata, sono comunque composte da attività lavorative difficilmente automatizzabili.
Nel complesso, si tratta di percentuali più alte rispetto ad altri Paesi europei, a causa del diverso stadio di introduzione delle nuove tecnologie. I Paesi che le hanno adottate per prime presentano oggi un rischio di automazione più basso rispetto all’Italia che, da questo punto di vista, registra un ritardo.
Secondo l’indagine, le professioni che presentano una probabilità di automazione alta sono quelle che richiedono la realizzazione di un numero elevato di attività di routine, quali, ad esempio, lo scambio di informazioni, la vendita e le attività manuali. Riguardano il settore dei trasporti e la logistica, il supporto d’ufficio e amministrativo, la produzione, il settore dei servizi e il settore della vendita.
Le professioni con una probabilità di automazione bassa presentano invece livelli elevati di percezione, manipolazione, intelligenza creativa e intelligenza sociale. Riguardano i settori del management e della finanza, l’ambito legale, l’istruzione, l’assistenza sanitaria e l’arte. Sono professioni che richiedono un livello di istruzione elevato e sono caratterizzate da aspetti prettamente “umani”, quali la creatività, l’adattamento, la gestione delle relazioni interpersonali, la formazione, la collaborazione con altre persone.
L’indagine mostra una relazione positiva tra competenze e salario. Le professioni che presentano una probabilità di automazione bassa (inferiore al 30%) impiegano in genere lavoratori con un alto livello di competenze, retribuiti con salari elevati (ad esempio medici, avvocati, ingegneri, professori). Quelle che invece presentano una probabilità di automazione alta (superiore al 70%) impiegano in genere lavoratori con un basso livello di competenze e con retribuzioni inferiori (ad esempio addetti alla gestione di magazzini, commessi delle vendite, centralinisti, cassieri).
Figurano comunque delle eccezioni, legate a professioni con una bassa probabilità di automazione, dove sono impiegati lavoratori low-skilled (ad esempio fotografi, sarti, idraulici, parrucchieri e camerieri). Così come esistono professioni che presentano una probabilità di automazione alta ma che impiegano lavoratori middle-skilled o high-skilled, con salari medio-alti (contabili, fiscalisti, addetti alle buste paga). Si tratta di eccezioni collegate alla diversa capacità della tecnologia di automatizzare le attività lavorative e alla presenza, o meno, dei cosiddetti “colli di bottiglia”, vale a dire attività o funzioni non automatizzabili.
Gli uomini registrano un rischio maggiore di automazione rispetto alle donne. Si tratta di un risultato determinato dal fatto che in Italia l’occupazione femminile è maggiore in settori nei quali meno elevato è l’impiego di robot e altri macchinari di automazione, come i servizi di cura della persona o la sanità.
Gli autori dell’indagine ritengono che il rischio di automazione effettiva in Italia sia comunque inferiore rispetto alle percentuali calcolate, soprattutto a causa di un tessuto economico caratterizzato dalla presenza di numerose imprese di piccole dimensioni o a controllo familiare. Ciò determina una ridotta capacità di investimento nell’adozione di nuove tecnologie. Ma queste imprese si contraddistinguono anche per una particolare attenzione al lavoratore, preferendo una “ridefinizione” della sua figura professionale piuttosto che la sostituzione.
Infine, l’adozione di tecnologie di automazione determina cambiamenti rilevanti nella struttura organizzativa, nella ridefinizione dei ruoli e dei processi o nel grado di delega decisionale. Fattori che non tutte le imprese, in particolare quelle piccole o a struttura familiare, sono in grado di affrontare.
Per compensare la perdita di posti di lavoro, gli autori dell’indagine suggeriscono di adottare politiche di sostegno ai settori nei quali è probabile che il lavoro umano continui ad essere centrale, come i servizi alla persona, il turismo, la sanità e l’istruzione. Oppure stimolare la nascita di nuove imprenditorialità nei settori legati alle nuove tecnologie.
Infine, invitano ad investire sulla formazione dei lavoratori, ma prendendo atto di una grande differenza rispetto al passato. Non è più sufficiente aumentare gli investimenti in istruzione, dal momento che i progressi tecnologici come il machine learning e l’intelligenza artificiale consentono di rimpiazzare anche lavoratori molto qualificati. Occorre accompagnare i lavoratori sia nella fase di ingresso nel mercato del lavoro, sia durante tutta la loro vita lavorativa, aggiungendo alle capacità tecniche, altre capacità prettamente “umane” e non automatizzabili, quali la creatività, l’attitudine al problem-solving, le capacità sociali e relazionali. A tal proposito, l’indagine si conclude proponendo la progettazione di un vero sistema di formazione che parta dalle relazioni scuola-lavoro e dall’apprendistato per poi offrire opportunità di riqualificazione o di potenziamento delle competenze per gli adulti.