Smart-working: dall’orario di lavoro al lavoro per obiettivi

domenico de masi e smart-working

Articolo redatto da Osservatorio FondItalia

Il 22 febbraio l’Osservatorio sulle trasformazioni del lavoro e della formazione continua promosso da FondItalia ha organizzato la presentazione del volume di Domenico De MasiSmart-working. La rivoluzione intelligente (Marsilio, 2020).

L’iniziativa si è configurata come un incontro con l’autore, moderato da Gaetano Sabatini, professore ordinario di Storia economica all’Università Roma Tre e direttore dell’Istituto di Studi sul Mediterraneo (Isem) del Cnr, e accompagnato dagli interventi del Presidente di FondItalia, Francesco Franco, e del vicepresidente Egidio Sangue.

Domenico De Masi, docente emerito di Sociologia del Lavoro all’Università La Sapienza di Roma e autore di numerosi saggi riguardanti la società post-industriale e la sociologia del lavoro, ha ripercorso le tappe che in Italia hanno segnato il passaggio dai primi esperimenti di telelavoro mediante computer portatili condotti dall’Inps sotto la guida di Gianni Billia, fino all’esplosione dello smart-working, in conseguenza della pandemia di Covid-19.

I vantaggi dello smart-working

De Masi si è soffermato sui vantaggi dello smart-working, ma anche sugli ostacoli che si presentano lungo il suo percorso di consolidamento.

Per il telelavoratore i vantaggi sono rappresentati da un risparmio di tempi e costi legati allo spostamento verso gli uffici, con il ricavo di un maggior tempo libero da dedicare agli affetti personali e alla vita di quartiere. Per le imprese, l’adozione dello smart-working comporta notevoli risparmi sui costi fissi degli uffici e sugli spazi necessari. Inoltre, come dimostrano tutte le ricerche condotte durante il periodo della pandemia, beneficiando di una maggior soddisfazione da parte dei propri dipendenti, il datore di lavoro può registrare un aumento di produttività (nell’ordine del 15-20%).

Per il territorio e la comunità, la diffusione dello smart-working consente di ridurre il traffico, il sovraccarico dei mezzi pubblici, l’inquinamento e di aumentare l’occupazione femminile. Ovviamente, lo smart-working presenta anche degli svantaggi, che il sistema economico deve affrontare e risolvere.

Per i lavoratori si tratta in particolare del rischio di emarginazione dal contesto aziendale e della possibile confusione tra lavoro professionale e lavoro domestico. Per le imprese, le sfide sono rappresentate dall’impostare nuove modalità di monitoraggio dei lavoratori e dalla ricerca di soluzioni per mantenere alto il senso di appartenenza dei propri dipendenti. Soprattutto, l’autore ha evidenziato la presenza di resistenze al consolidamento dello smart-working, rappresentate in primo luogo da una concezione primitiva del potere da parte dei capi del personale, fondato sulla presenza fisica e sul “controllo a vista”, oltre che da ritardi normativi, contrattuali e tecnologici.

Smart-working e creatività

Il dibattito seguito alla relazione di De Masi è stato aperto dalle considerazioni del professor Sabatini, che ha richiamato l’equazione, proposta da De Masi nel suo libro, tra smart-working e creatività. Questa equazione, secondo Sabatini, è particolarmente interessante in un contesto, come quello attuale, di profonda ridefinizione professionale di quelle categorie che in certa qual misura dovranno più adattare la propria attività alla mutazione tecnologica che accompagna lo smart-working.

“Non torneremo alla normalità, perché la normalità è il problema. È dunque il modello di sviluppo che ci ha condotto a questo punto”, ha scritto De Masi nel suo volume. E proprio da questa sua frase è iniziato l’intervento del vicepresidente di Fonditalia, dott. Egidio Sangue, che ha voluto sottolineare come lo smart-working sia conveniente per stimolare una vera e propria rivoluzione culturale. Questa, in realtà, è già in corso e sta ridefinendo il rapporto tra uomo e lavoro e tra uomo e società.

Il dott. Sangue ha ricordato un altro passaggio interessante del libro di De Masi, che sottolinea come grazie allo smart-working si potranno estendere i privilegi, finora limitati a quei lavori intellettuali, anche a tutta una serie di lavoratori “esecutivi” che potranno grazie alla tecnologia migliorare il proprio rapporto con il lavoro e con la propria vita.

Per il dott. Sangue è molto interessante anche l’elaborazione di un nuovo modello di lavoro in azienda partecipativo e collaborativo, che accresca il valore aggiunto intellettuale (creatività) a beneficio dell’impresa, ma anche del lavoratore stesso, a proprio beneficio, e anche della società tutta.

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La formazione

Sul tema della formazione, il dott. Sangue ha ricordato le difficoltà di alcune famiglie e di alcuni lavoratori nell’adattarsi al lavoro da remoto, in particolare quelli privi della strumentazione necessaria per essere in condizione di “connettersi”, sia per mancanza di infrastrutture che per mancanza di competenze di base. “Non potendo organizzare la formazione in presenza – spiega il dott. Sangue – si fa fatica a far utilizzare la strumentazione di base alle imprese che vogliono fruire della formazione, a partire dalla dimestichezza di utilizzo di programmi di videochiamata, perché il paese è molto differenziato in termini di capacità di utilizzare certe tecnologie”. Alcune aree del paese, infatti, sono state purtroppo molto svantaggiate nell’utilizzo di queste nuove tecnologie.

Sul tema della “fine del lavoro”, ha ripreso la parola il professor De Masi, ricordando la conferenza di John Maynard Keynes a Madrid del 1930, dal titolo “Prospettive economiche per i nostri nipoti” (di cui riportiamo alcuni estratti al termine di questo contributo).

La profezia di Keynes, secondo il professor De Masi, è oggi una realtà per quanto riguarda il problema di “lavorite” che affligge milioni di persone, soprattutto in Italia. Questo problema accomuna moltissimi lavoratori: uomini più che donne, che lavorano troppo senza rendersi conto di togliere in questo modo il lavoro ai propri figli. Non c’è un reale carico di lavoro superiore per alcune professioni, ma un problema psicologico generalizzato di persone abituate all’overtime in azienda, a scapito di figli e nipoti che non trovano lavoro anche in età adulta.

“Siamo alla vigilia di una trasformazione importante: riducendo l’orario di lavoro, specialmente per i lavori intellettuali, si aumenterà la produttività”, ha detto il professor De Masi.

“Occorrerà sempre meno lavoro umano, questo è il progresso. Produrre di più ma lavorando di meno, di conseguenza anche le competenze: più umanesimo, più creatività, meno tecnica e specializzazione tecnica – dove le competenze mutano troppo velocemente. Anche gli scienziati, nel prossimo futuro, dovranno essere scienziati umanisti”.

Sono poi giunte al professore, in conclusione, domande da parte di alcuni degli studiosi che hanno partecipato alla presentazione.

Sul passaggio dal lavoro fondato su base oraria a quello per obiettivi, De Masi ha ribadito che questa è la chiave per adattarsi alla trasformazione in atto. “Facciamo un esempio: la produzione di idee segue un criterio e tempistiche diverse rispetto a mansioni manuali come quelle di avvitare bulloni in fabbrica. Oggi siamo già immersi in una rivoluzione di paradigma del lavoro e della produzione, per cui non vince chi ripete di più, ma vince chi crea di più. Si guadagna molto di più con un’idea nuova che ripetendo mille volte idee vecchie. Serve valorizzare la parte creativa dell’uomo, non quella esecutiva”, ha detto De Masi.

“Tanti obiettivi mi hai raggiunto e tanto ti pago, non tante ore lavori”. Dopo questa considerazione, De Masi si è rivolto ai formatori e ai docenti universitari, facendo notare che proprio su questo tema si apre una prateria immensa per i formatori. Per il professore, infatti, questi non devono formare i lavoratori, ma devono concentrarsi sui capi reparto, sui capi del personale, che devono trasformare “il lavoro per flusso” in “lavoro per obiettivi”. “Bisogna preparare subito pacchetti formativi a riorganizzare subito il lavoro per obiettivi”, ha consigliato De Masi.

Infine, il Professor Sabatini ha ricordato l’opportunità offerta dallo smart-working di rivitalizzazione di alcuni territori che versavano in stato di abbandono. Preoccupa il divario che tenderà a polarizzarsi tra lavoratori “manuali” e lavoratori “intellettuali”. Se osserviamo i dati delle infrastrutture, notiamo che stanno raggiungendo anche le aree finora marginali, ma il timore è che il divario resti troppo ampio. Ma è anche vero – ha fatto notare Sabatini – che lavorare a distanza potrebbe spingere ancor di più verso l’abbandono delle aree urbane e il recupero di territori spopolati, che a patto di essere rapidamente dotate di infrastrutture, potranno essere valorizzati nel prossimo futuro.

 

Estratti dalla Conferenza tenuta da Keynes a Madrid nel giugno del 1930. Ora nel nono volume dei suoi Collected Writings intitolato Essays in Persuasion, tradotta in Italia da Bollati Boringhieri (La fine del laissez faire ed altri scritti, Torino 1991).

IL PESSIMISMO ECONOMICO

In questo momento siamo affetti da un grave attacco di pessimismo economico. È cosa comune sentir dire dalla gente che è ormai conclusa l’epoca dell’enorme progresso economico che ha caratterizzato il secolo XIX; che adesso il rapido miglioramento del tenore di vita dovrà rallentare, per lo meno in Gran Bretagna; che nel prossimo decennio è più probabile un declino anziché un fiorire della prosperità.

La depressione che domina nel mondo, l’atroce anomalia della disoccupazione in un mondo pieno di bisogni, i disastrosi errori che abbiamo commesso ci rendono ciechi di fronte a quanto sta accadendo sotto il pelo dell’acqua, cioè di fronte al significato delle tendenze autentiche del processo. Voglio affermare, infatti, che entrambi i contrapposti errori di pessimismo, che sollevano oggi tanto rumore nel mondo, si dimostreranno errati nel corso della nostra stessa generazione: il pessimismo dei rivoluzionari, i quali pensano che le cose vadano tanto male che nulla possa salvarci se non il rovesciamento violento; e il pessimismo dei reazionari i quali ritengono che l’equilibrio della nostra vita economica e sociale sia troppo precario per permetterci di rischiare nuovi esperimenti.

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QUALI SONO LE PROSPETTIVE ECONOMICHE PER I NOSTRI NIPOTI?

Dai tempi più remoti di cui abbiamo conoscenza (diciamo duemila anni prima di Cristo) fino all’inizio del secolo XVIII, il livello di vita dell’uomo medio, che vivesse nei centri civili del mondo, non ha subito grandi mutamenti. Alti e bassi sicuramente. Comparse di epidemie, carestie e guerre. Intervalli aurei. Ma nessun balzo in avanti, nessun cambiamento violento. Nei quattromila anni, conclusisi all’incirca nell’anno di grazia 1700, alcuni periodi hanno fatto registrare un miglioramento del 50 per cento (nel migliore del casi del 100 per cento) rispetto ad altri. Questo lento tasso di progresso, ovvero questa mancanza di progresso, era dovuto a due motivi: l’assenza vistosa di miglioramenti tecnici di rilievo e la mancata accumulazione di capitale.

L’assenza di grandi invenzioni tecniche fra l’era preistorica e i tempi relativamente moderni è davvero degna di nota. Quasi tutto ciò che, di sostanziale importanza, il mondo possedeva all’inizio dell’età moderna, era già noto all’uomo agli albori della storia. Il linguaggio, il fuoco, gli stessi animali domestici che abbiamo oggi, il grano, l’orzo, la vite e l’olivo, l’aratro, la ruota, il remo, la vela, le pelli, la tela e il panno, i mattoni e le terrecotte, l’oro e l’argento, il rame, lo stagno e il piombo (e il ferro vi si aggiunse prima del 1000 a C.), il sistema bancario, l’arte del governo, la matematica, l’astronomia e la religione: non sappiamo quando l’uomo abbia avuto per la prima volta in mano queste cose. In una certa epoca, anteriore all’inizio della storia, forse durante uno di quei favorevoli intervalli che hanno preceduto l’ultima epoca glaciale, deve essere esistita un’era di progresso e di invenzioni paragonabile a quella in cui viviamo oggi. Ma per la maggior parte della storia vera e propria non si è avuto nulla del genere.

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BISOGNI ASSOLUTI E BISOGNI RELATIVI

Ammettiamo, a titolo di ipotesi, che di qui a cent’anni la situazione economica di tutti noi sia in media di otto volte superiore a quella odierna. Cosa di cui, in verità, non dovremmo affatto stupirci.

È ben vero che i bisogni degli esseri umani possono apparire inesauribili. Essi, tuttavia, rientrano in due categorie: i bisogni assoluti, nel senso che li sentiamo quali che siano le condizioni degli esseri umani nostri simili, e quelli relativi, nel senso che esistono solo in quanto la soddisfazione di essi ci eleva, ci fa sentire superiori ai nostri simili. I bisogni della seconda categoria, quelli che soddisfano il desiderio di superiorità, possono davvero essere inesauribili poiché quanto più alto è il livello generale, tanto maggiori diventano. Il che non è altrettanto vero dei bisogni assoluti: qui potremmo raggiungere presto, forse molto più presto di quanto crediamo, il momento in cui questi bisogni risultano soddisfatti nel senso che preferiamo dedicare le restanti energie a scopi non economici. Veniamo ora alla mia conclusione che credo riterrete sconcertante, anzi quanto più ci ripenserete, tanto più la troverete sconcertante.

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UN COLLASSO NERVOSO GENERALE

Giungo alla conclusione che, scartando l’eventualità di guerra e di incrementi demografici eccezionali, il problema economico può essere risolto, o per lo meno giungere in vista di soluzione, nel giro di un secolo. Ciò significa che il problema economico non è, se guardiamo al futuro, il problema permanente della razza umana.

Perché mai, potrete chiedere, è cosa tanto sconcertante? È sconcertante perché, se invece di guardare al futuro ci rivolgiamo al passato, vediamo che il problema economico, la lotta per la sussistenza, è sempre stato, fino a questo momento il problema principale, il più pressante per la razza umana: anzi, non solo per la razza umana, ma per tutto il regno biologico dalle origini della vita nelle sue forme primitive. Pertanto la nostra evoluzione naturale, con tutti i nostri impulsi e i nostri istinti più profondi, è avvenuta al fine di risolvere il problema economico. Ove questo fosse risolto, l’umanità rimarrebbe priva del suo scopo tradizionale.

Sarà un bene? Se crediamo almeno un poco nei valori della vita, si apre per lo meno una possibilità che diventi un bene. Eppure io penso con terrore al ridimensionamento di abitudini e istinti nell’uomo comune, abitudini e istinti concresciuti in lui per innumerevoli generazioni e che gli sarà chiesto di scartare nel giro di pochi decenni. Per adoperare il linguaggio moderno, non dobbiamo forse attenderci un “collasso nervoso” generale? Abbiamo già avuto una piccola esperienza di quello che intendo, cioè un collasso nervoso simile al fenomeno già piuttosto comune in Gran Bretagna e negli Stati Uniti fra le donne sposate delle classi agiate, sventurate donne in gran parte, che la ricchezza ha privato dei compiti e delle occupazioni tradizionali: donne che non riescono a trovare sufficiente interesse nel cucinare, pulire, rammendare quando vi manchi la spinta della necessità economica: e che tuttavia sono assolutamente incapaci di inventare qualche cosa di più divertente.

Per chi suda il pane quotidiano il tempo libero è un piacere agognato: fino momento in cui l’ottiene. Ricordiamo l’epitaffio che scrisse per la sua tomba quella vecchia donna di servizio:

Non portate il lutto, amici, non piangere per me che farò finalmente niente, niente per l’eternità.

Questo era il suo paradiso. Come altri che aspirano al tempo libero, la donna di servizio immaginava solo quanto sarebbe stato bello passare il tempo a far da spettatore.

C’erano, infatti, altri due versi nell’epitaffio:

Il paradiso risuonerà di salmi e di dolci musiche ma io non farò la fatica di cantare.

Eppure la vita sarà tollerabile solo per quelli che partecipano al canto: e quanto pochi di noi sanno cantare!

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COME IMPIEGARE IL TEMPO LIBERO?

Pertanto, per la prima volta dalla sua creazione, l’uomo si troverà di fronte al suo vero, costante problema: come impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti, come impiegare il tempo libero che la scienza e l’interesse composto gli avranno guadagnato, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza.

Gli indefessi, decisi creatori di ricchezza potranno portarvi tutti, al loro seguito, in seno all’abbondanza economica. Ma saranno solo coloro che sanno tenere viva, e portare a perfezione l’arte stessa della vita, e che non si vendono in cambio dei mezzi di vita, a poter godere dell’abbondanza, quando verrà.

Eppure non esiste paese o popolo, a mio avviso che possa guardare senza terrore all’era del tempo libero e dell’abbondanza. Per troppo tempo, infatti, siamo stati allenati a faticare anziché godere. Per l’uomo comune, privo di particolari talenti, il problema di darsi un’occupazione è pauroso, specie se non ha più radici nella terra e nel costume o nelle convenzioni predilette di una società tradizionale.

A giudicare dalla condotta e dal risultati delle classi ricche di oggi, in qualsiasi regione del mondo, la prospettiva è davvero deprimente. Queste classi, infatti, sono per così dire la nostra avanguardia, coloro che esplorano per noi la terra promessa e che vi piantano le tende. E per la maggior parte costoro, che hanno un reddito indipendente ma nessun obbligo o legame o associazione, hanno subito una sconfitta disastrosa, così mi sembra, nel tentativo di risolvere il problema che era in gioco.

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L’ISTINTO DI ADAMO

Sono certo che, con un po’ più di esperienza, noi ci serviremo del nuovo generoso dono della natura in modo completamente diverso da quello dei ricchi di oggi e tracceremo per noi un piano di vita completamente diverso che non ha nulla a che fare con il loro. Per ancora molte generazioni l’istinto del vecchio Adamo rimarrà così forte in noi che avremo bisogno di un qualche lavoro per essere soddisfatti. Faremo, per servire noi stessi, più cose di quante ne facciano di solito i ricchi d’oggi, e saremo fin troppo felici di avere limitati doveri, compiti, routines. Ma oltre a ciò dovremo adoperarci a far parti accurate di questo “pane” affinché il poco lavoro che ancora rimane sia distribuito fra quanta più gente possibile.

Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo. Tre ore di lavoro al giorno, infatti, sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi.

Dovremo attenderci cambiamenti anche in altri campi. Quando l’accumulazione di ricchezza non rivestirà più un significato sociale importante, interverranno profondi mutamenti nel codice morale. Dovremo saperci liberare di molti dei principi pseudomorali che ci hanno superstiziosamente angosciati per due secoli, e per i quali abbiamo esaltato come massime virtù le qualità umane più spiacevoli. Dovremo avere il coraggio di assegnare alla motivazione “denaro” il suo vero valore. L’amore per il denaro come possesso, e distinto dall’amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita, sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali.

Saremo, infine, liberi di lasciar cadere tutte quelle abitudini sociali e quelle pratiche economiche relative alla distribuzione della ricchezza e alle ricompense e penalità economiche, che adesso conserviamo a tutti i costi, per quanto di per se sgradevoli e ingiuste, per la loro incredibile utilità a sollecitare l’accumulazione del capitale. Naturalmente continueranno ad esistere molte persone dotate di attivismo e di senso dell’impegno intensi e insoddisfatti, che perseguiranno ciecamente la ricchezza a meno che non riescano a trovarvi un sostituto plausibile. Ma non saremo più tenuti all’obbligo di lodarle e di incoraggiarle perché sapremo penetrare, più a fondo di quanto sia lecito oggi, il significato vero di questo “impegno” di cui la natura ha dotato in varia misura quasi tutti noi. “Impegno” infatti, significa preoccuparsi dei risultati futuri delle proprie azioni più che della loro qualità o del loro effetto immediato nel nostro ambiente. L’uomo “impegnato” tenta sempre di assicurare alle sue azioni un’immortalità spuria e illusoria, proiettando nel futuro l’interesse che vi ripone.

[…]

LA BEATITUDINE ECONOMICA

Vedo quindi gli uomini liberi tornare ad alcuni del principi più solidi e autentici della religione e della virtù tradizionali: che l’avarizia è un vizio, l’esazione dell’usura una colpa, l’amore per il denaro spregevole, e che chi meno s’affanna per il domani cammina veramente sul sentiero della virtù e della profonda saggezza. Rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e preferiremo il bene all’utile. Renderemo onore a chi saprà insegnarci a cogliere l’ora e il giorno con virtù, alla gente meravigliosa capace di trarre un piacere diretto dalle cose, i gigli del campo che non seminano e non filano.

Ma attenzione! Il momento non è ancora giunto. Per almeno altri cent’anni dovremo fingere con noi stessi e con tutti gli altri che il giusto è sbagliato e che lo sbagliato è giusto, perché quel che è sbagliato è utile e quel che è giusto no. Avarizia, usura, prudenza devono essere il nostro dio ancora per un poco, perché solo questi principi possono trarci dal cunicolo del bisogno economico alla luce del giorno.

Attendo, quindi, in giorni non troppo lontani, la più grande trasformazione che mai sì sia verificata nell’ambiente fisico in cui si muove la vita degli esseri umani come aggregato. Ma, naturalmente, tutto avverrà per gradi, non come una catastrofe. Tutto, anzi, è già incominciato. Le cose andranno semplicemente così: sempre più vaste diventeranno le categorie e i gruppi di persone che in pratica non conoscono i problemi della necessità economica. Ci si renderà conto della differenza critica quando questa condizione si sarà a tal punto generalizzata da mutare la natura del dovere dell’uomo verso il suo simile: infatti l’impegno del fare verso gli altri continuerà ad avere una ragione anche quando avrà cessato di averla il fare a nostro vantaggio.

Il ritmo con cui possiamo raggiungere la nostra destinazione di beatitudine economica, dipenderà da quattro fattori: la nostra capacità di controllo demografico, la nostra determinazione nell’evitare guerre e conflitti civili, la nostra volontà di affidare alla scienza la direzione delle questioni che sono di sua stretta pertinenza, e il tasso di accumulazione in quanto determinato dal margine fra produzione e consumo. Una volta conseguiti i primi tre punti il quarto verrà da sé.

In questo frattempo non sarà male por mano a qualche modesto preparativo per quello che è il nostro destino, incoraggiando e sperimentando le arti della vita non meno delle attività che definiamo oggi “impegnate”.

Ma, soprattutto, guardiamoci dal sopravvalutare l’importanza del problema economico o di sacrificare alle sue attuali necessità altre questioni di maggiore e più duratura importanza. Dovrebbe essere un problema da specialisti, come la cura dei denti. Se gli economisti riuscissero a farsi considerare gente umile, di competenza specifica, sul piano dei dentisti, sarebbe meraviglioso.

Alessandro Albanese Ginammi, ricercatore di EcoLab, ha scritto i titoli dei paragrafetti. Tempo fa aveva pubblicato un articolo sul tema, che può essere ripreso in totale libertà:

 

Non sopravvalutate gli economisti! La lezione di Keynes

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